Global scenario and forecasts for the third quarter of 2025


The second quarter of 2025 saw the Trump administration take a decisive stance on international trade. As with other policy decisions, the US government's approach proved to be extremely assertive, using its economic clout to redefine international trade relations.
Following the 'Liberation Day' event, during which highly provocative reciprocal tariffs were proposed and then suspended, negotiations centred on implementing a 10% base rate on all imports and imposing higher tariffs on countries or sectors to which greater pressure was to be applied.
The administration has made it clear that, in addition to trying to reduce triangulation between countries subject to tariffs — Vietnam being a prime example — its objectives also include addressing non-tariff barriers. Therefore, the approach is to evaluate the internal policies of each country to identify any unfair disadvantages for US companies. It is worth recalling the discussion on the role of VAT on imports by the European Union. This type of strategy confirms an all-out war on trade that calls into question the status quo of global trade.
From a theoretical perspective, it is difficult to find consistency in US strategy and demands. For example, reducing imports of goods would not only have a negative impact on productivity, but also reduce the scope of tariffs as a source of tax revenue to reduce the deficit. However, for now, this uncertainty is perceived as a negotiating tactic.
It should be noted that, at the end of the suspension period, negotiations were still ongoing and few agreements had been concluded. These included the preliminary agreement with the UK, the first phase with Taiwan and the agreement with Vietnam. Negotiations with China, which are certainly sensitive, have had their ups and downs, but seem to be nearing completion. The agreement with Europe, which represented the second largest trade deficit after China in 2024 and will certainly be subject to major revisions, is also under discussion.
From a policy perspective, this quarter has seen a significant shift in the pace of international relations, as desired by American politics. However, from an economic standpoint, the aggregate data still indicates limited impact on key indicators such as inflation and employment, as well as on the expectations of businesses and companies. There has been little change in the trends observed in previous quarters.
Indeed, annual inflation growth remained at around 2.4% in May, down from 2.9% at the end of the year, and employment indicators remained stable. This confirms the substantial resilience of the US economic cycle and suggests that the impact of this regime change will be difficult to identify. While some initial indicators suggest a cooling phase in the cycle, these are within the normal parameters of variability and are also distorted by the front-loading effect of the first quarter. While it is therefore difficult to ascertain the true robustness of the macroeconomic data with certainty, there are certainly no signs of a recession, which can be ruled out for now.
Anche i risultati aziendali del primo trimestre uniti alle previsioni per il secondo forniscono un quadro incoraggiante, con molti attori che indicano un impatto limitato da parte del nuovo regime tariffario. Dopo una prima fase di dubbio e preoccupazione, infatti, il livello medio delle tariffe, seppur elevato, è per ora di gran lunga inferiore a quanto prospettato inizialmente, permettendo quindi alle aziende di migliorare, in media, le proprie previsioni.
È ovviamente una prospettiva strana, rispetto alle reazioni di panico registrate all’indomani del “liberation day”, ed è probabilmente l’effetto combinato di diverse dinamiche. La domanda ancora solida, grazie anche alla espansione fiscale e ai forti investimenti degli anni passati, permette di essere positivi sui consumi. Nonostante i dati aggregati mostrino poca pressione inflazionistica, è infatti probabile che l’aumento dovuto alle tariffe sia stato per la maggior parte assorbito dal consumatore finale, come mostra un primo studio della Fed di New York.
Ma a supportare il ciclo ci sono anche le aspettative di una politica maggiormente protezionistica che, per lo meno nel breve termine, gioca a favore delle aziende americane. Oltre alle tariffe anche la debolezza del dollaro, ad esempio, mentre pesa sul portafoglio del consumatore, migliora le prospettive delle aziende esportatrici, come pure l’aumento di fette di mercato interno a scapito delle importazioni estere. Le attese di deregolamentazione, su diversi fronti, è un altro elemento di positività per il mercato.
In tutto questo non va dimenticato poi l’enorme ondata di investimenti legata alla intelligenza artificiale, che pur arrivato ormai ad una fase di maturazione, rappresenta comunque una spinta innovativa poco legata alle dinamiche della guerra commerciale. Infine, la capacità di tenere il prezzo del petrolio basso, nonostante la crisi in Medio Oriente, funziona da valvola di sfogo rispetto ad altre pressioni inflazionistiche.
L’interpretazione di questo scenario è che, pur rappresentando un livello di tariffe superiore rispetto a quanto visto negli ultimi cinquant’anni, non si tratta di un cambiamento tale da innescare una vera crisi economica. Piuttosto, costituisce una distorsione dei processi produttivi — paragonabile a un’interruzione delle catene di approvvigionamento o a un aumento dei costi — che l’economia statunitense è oggi in grado di assorbire efficacemente.
Da non dimenticare che ciò accade anche grazie alla importante espansione fiscale degli anni passati. Questo significa che non può passare in secondo piano la traiettoria del deficit fiscale, per capire se la situazione attuale sia sostenibile o meno. In questo senso One Big Beautiful Bill Act, la vasta legge economica firmata da Trump il 4 luglio 2025 è un altro importante tassello per capire l’impatto che questa amministrazione avrà sulle finanze federali Usa e quindi sulla traiettoria dei tassi.
Come ormai risaputo, One Big Beautiful Bill Act è il principale provvedimento economico dell’amministrazione Trump. La legge combina tagli fiscali per famiglie e imprese, incentivi all’industria manifatturiera USA, e dazi mirati per proteggere i settori strategici. Include inoltre semplificazioni regolatorie e agevolazioni per gli investimenti in energia e infrastrutture. Il provvedimento punta a rafforzare la crescita interna e a ridurre la dipendenza economica dalla Cina. È stato approvato con margini molto stretti in entrambe le Camere, riflettendo un forte dibattito politico.
È sempre difficile definire bene l’impatto di un pacchetto legislativo così vasto, ma alcune indicazioni sono chiare. L’impatto maggiore viene dall’estensione dei tagli fiscali alle aziende introdotti nella prima amministrazione Trump (e che, come detto, sono tra i motori della performance del mercato azionario US degli ultimi anni). Purtroppo, questo da una parte aumenta la previsione del deficit fiscale e dall’altro avrà probabilmente un limitato impatto espansivo, dato che non si tratta, se non marginalmente, di nuovi e ulteriori tagli. A sostegno della crescita ci sono crediti fiscali e nuove esenzioni per le famiglie, ma di entità sicuramente minore.
Sono previsti anche tagli alla spesa, principalmente sanità pubblica e spesa sociale, come il Medicaid e l’introduzione di misure più restrittivi ai prestiti studenteschi. Questi revisioni della spesa, la maggior parte dei quali entreranno in vigore dal 2027 in poi, uniti ai dazi introdotti per difendere l’industria statunitense, coprono solo in parte la riduzione delle entrate federali causate dai tagli fiscali. Oltretutto viene limitata l’assistenza sociale alle fasce di reddito più basse, che potrebbe avere ne breve termine un impatto negativo sui consumi. Anche per questo tali misure saranno attuate per lo più dopo le elezioni di midterm.
Il quadro sembra essere quindi quello di una forte espansione fiscale, a sostegno dell’economia, ma con un impatto sulla crescita minore delle attese e sicuramente un aggravio del deficit fiscale nei prossimi anni, stimato fino ai 3 trilioni di $ nell’intero periodo. Questo in una fase in cui l’economia US è ancora solida seppur con segnali di rallentamento, e con poca necessità di ulteriori stimoli.