Scenario globale e previsioni per il quarto trimestre 2025

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L'attuale contesto macroeconomico rimane una sfida: l'ultimo trimestre del 2025 sottolinea una crescente fragilità in un contesto di rischio.

Contesto Macroeconomico

L’ultimo scorcio del 2025 mette in evidenza una fragilità crescente data da un aumento del debito governativo, indebolimento delle valute nazionali e rallentamento della crescita. In particolare, gli Stati Uniti devono affrontare il difficile equilibrio tra inflazione persistente e deterioramento occupazionale, mentre l’Europa resta schiacciata tra bassa crescita e necessità di spesa pubblica. In questo quadro, le banche centrali si trovano intrappolate tra il rischio di allentare troppo presto e quello di stringere eccessivamente.

La guerra commerciale sembra ora passare ad una seconda fase. L'accordo di massima raggiunto a luglio con l'Unione Europea, che riporta il livello tariffario a dinamiche di un secolo fa, contribuisce a ridurre l'incertezza e stabilisce una base di lavoro più chiara per le relazioni commerciali tra le due aree economiche. Il costo delle tariffe verrà poi sopportato in parte dagli esportatori, in parte dagli importatori e in parte dai consumatori US. La relazione commerciale tra Stati Uniti e Cina si trova invece in una fase di cristallizzazione: l'introduzione di cap tariffari e rinvii temporanei ha congelato l'escalation vista negli ultimi anni, riducendo l'incertezza ma senza riportare i dazi su livelli pre-guerra. Questo fragile equilibrio sposta l'attenzione dal terreno tariffario a quello strategico, dove la vera battaglia si gioca nella ricerca di mercati alternativi e nell'uso di indicazioni dirette sugli acquisti da parte degli Stati, con un impatto crescente sulle catene di approvvigionamento globali e sulla ridefinizione dei partner commerciali. La gamma di beni coinvolti - dai chip alla soia - sottolinea l'estensione della leva commerciale, che ormai abbraccia tanto i settori strategici quanto le commodity agricole.

L'andamento a singhiozzo delle trattative tariffarie tra Stati Uniti e resto del mondo ha reso estremamente difficile isolare e quantificare gli impatti effettivi delle tariffe sulle dinamiche dei prezzi. Da un lato, i continui rinvii, le revisioni sui "caps" e le misure temporanee impediscono una stabilità sufficiente per un'analisi robusta. Dall'altro, la trasmissione (pass-through) dei dazi sui prezzi finali dipende da variabili che cambiano tra settori e paesi: margini delle filiere, elasticità della domanda, grado di apertura delle catene del valore e la capacità dei produttori di assorbire costi. Le evidenze empiriche indicano che, anche nei casi più recenti, l'impatto sulle componenti di prezzo "core goods" è già visibile, soprattutto negli ultimi mesi. Tuttavia, la mancanza di una traiettoria tariffaria stabile limita la visibilità su effetti strutturali a medio termine. Ma sarà dall’autunno in poi, con l’arrivo delle spese natalizie, che si vedrà l’effetto finale. Infine, la guerra commerciale e le catene globali del valore fanno sì che gli effetti tariffari negli Stati Uniti non restino circoscritti al mercato domestico. In Europa, seppur con intensità minore, emergono pressioni inflattive legate all’aumento dei costi lungo le filiere, parzialmente compensate dalla disinflazione prodotta dall’eccesso di offerta cinese che continua a riversarsi sui mercati internazionali. Infine, non si può ignorare l’impatto delle tariffe sui margini delle aziende. Ancora non si riesce a quantificare in maniera coerente con i dati a disposizione, questo sia per le differenze tra le varie catene produttive, sia per l’applicazione ancora erratica in questi mesi. È probabile che gli effetti saranno più chiari in questo trimestre, e il timore è che la compressione dei margini costringa ad un taglio dei costi, soprattutto sul personale.

E in effetti, nonostante i timori di pressioni inflattive, la Banca Centrale US ha infine ceduto e ha iniziato una nuova fase di ribasso dei tassi a causa soprattutto dei dati sul lavoro. In particolare, ha preoccupato la revisione fatta negli ultimi dodici mesi che ha ridotto il numero di lavoratori di quasi un milione. A settembre 2025, infatti, l'ufficio di statistica US (Bureau of Labor Statistics, BLS) ha pubblicato la revisione preliminare dei dati occupazionali relativi al periodo aprile 2024 – marzo 2025, riducendo di circa 911.000 unità le stime precedenti dei nonfarm payrolls. La correzione riflette l’integrazione di dati amministrativi più completi, che hanno evidenziato una crescita occupazionale inferiore rispetto a quanto inizialmente rilevato dalle survey mensili, anche a causa di chiusure aziendali non catturate e di imputazioni statistiche meno accurate. Questa revisione si aggiunge a quella di febbraio 2025, che aveva già corretto al ribasso di circa 598.000 posti il periodo marzo 2023 – marzo 2024. Insieme, le due revisioni mostrano un quadro di mercato del lavoro più debole rispetto alle stime iniziali.

Questa situazione, pur non rappresentando uno scenario di crisi, costringe a riconsiderare la forza complessiva dell’economia americana, soprattutto in ottica di livello neutrale dei tassi. Sicuramente questo dato, reso disponibile solo a inizio settembre, ha contribuito a forzare la mano alla FED verso un primo taglio dei tassi a metà mese, ma anche ad una previsione di almeno altri due tagli entro la fine dell’anno. A confronto un anno fa la FED pensava che alla fine del 2025 avremmo avuto i tassi ben sopra il 4%. Non serve poi ricordare che anche l’attuale amministrazione US punta ad un livello dei tassi più basso, con l’obiettivo di ridurre il costo dell’indebitamento, indebolire la valuta e permettere una crescita maggiore dell’economia. Questi tre effetti poi concorrono a ridurre il peso del debito federale. La presenza o meno di ufficiali scelti dal governo serve solo ad aumentare le aspettative, ma il percorso di ribasso è tracciato.

Questo corrisponde quindi ad una view tendenzialmente debole sul dollaro, che si accoppia ad uno scenario di fiscal dominance, ossia una situazione in cui le esigenze fiscali, in questo caso la necessità di gestire un debito pubblico elevato, prevalgono sulla politica monetaria, riducendo l’autonomia della banca centrale. In questo contesto, l’istituto centrale è spinto a mantenere i tassi di interesse artificialmente bassi o a intervenire sul mercato dei titoli di Stato per evitare tensioni sul debito, anche se ciò comporta il rischio di un’inflazione persistente. La stabilità dei prezzi passa così in secondo piano rispetto alla sostenibilità fiscale, con implicazioni dirette sulla fiducia nella valuta.

Gli effetti di questo scenario dipendono molto dalle condizioni economiche in cui si sviluppa. Sicuramente nell’attuale situazione di sostanziale solidità del ciclo economico, una fase caratterizzata da politiche monetarie accomodanti e dal mantenimento di una politica fiscale espansiva favorisce gli asset più rischiosi, nell’aspettativa di una crescita economica trainata da queste misure. Anche l’imposizione dei dazi, che di per sé è una forma di tassazione regressiva che impatta soprattutto la domanda, avrà l’effetto di reindirizzare parte dei consumi verso l’offerta interna, che è già sostenuta dalla dinamica degli investimenti, alimentata da uno scenario fiscale espansivo.